Danilo Garcia Di Meo is an italian documentary photographer. He was born in Rome, after graduating from Arts High School and Academy of Fine Arts, he received his Master’s degree at the Leica Akademie Italy in Milan and at Officine Fotografiche in Rome studying with photo editor’s National Geographic Marco Pinna and with Lina Pallotta.After his studies, he started a freelance profession in full.
Da Rebibbia Femminile a Noi in tempo di Pandemia
Testo della regista Francesca Tricarico
C’è un suono che sembra non cambiare mai negli anni. Un trascinare stanco e deciso passi minuziosamente selezionati, come a voler non consumare un tempo, che solo la parsimoniosa, studiata, utilizzazione delle ore, minuti, secondi, può rendere meno interminabile. Sono i passi leggeri della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, leggeri anche quando fastidiosi. Prima regola del carcere, essere invisibili o meglio visibili all’occorrenza, non ostentare la propria presenza se non necessaria o richiesta, non una parola di troppo o di meno, non uno sguardo di più o di meno, perché mai rischiare fraintendimenti nel luogo per eccellenza del fraintendimento, del detto troppo o troppo poco? Essere parsimoniosi, preservare le energie, preservare se stessi, mangiare il tempo dilatandolo, senza fretta. Ho imparato in carcere che per correre serve fermarsi. Fermarsi per correre. Stare per andare. Immobile per partire. Chissà se ho imparato davvero. Tante volte ho detto che il carcere mi ha tolto dieci, anzi dato dieci anni di vita. Dieci anni di vita in più, anche da ospite part time. Ogni volta la stessa sensazione di vivere un tempo più ampio di quello stabilito dalla lancette dell’orologio all’ ingresso, o dal calendario a fine progetto. Una sospensione provvisoria all’intero dell’istituto, in cui scorre veloce nella sue interminabili attese, di un tempo che all’esterno odora dello stesso puzzo di ferro delle sbarre. Che odore ha oggi il mio tempo? Il nostro tempo? Al tempo della Pandemia? Ora che la sospensione, più del virus si è propagata oltre le celle, le sezioni, i corridoi, la matricola, la sorveglianza, la portineria, via Bartolo Longo, Rebibbia stazione, Roma sino a casa nostra ed oltre, sino in capo al mondo e sotto il mondo, sopra e sotto di noi? Un tempo infinitamente comodo al confronto di quello carcerario, ma non per tutti perché la quarantena come il carcere non è uguale per tutti. “Ci sono più sbarre oltre questa prigione che quante ne riesca a concepire la tua poesia caro Mercuzio” Una delle tante libertà poetiche nei nostri adattamenti teatrali a Rebibbia, aggiustamenti chiamiamoli così. Dove il teatro rende liberi ritrovando la sua vera essenza, la necessità. Necessità di incontro, condivisione, confronto, racconto. Strumento per riscoprire se stessi, i proprio bisogni e scelte attraverso l’altro, inteso come compagno di lavoro, testo, spettatore. Per dare voce a chi non ne ha, a chi la società spesso preferisce rendere invisibile, o visibile all’occorrenza, perché vedere sarebbe riconoscere parte di sé e come ha detto Dostoevskij “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni.”
[Lavoro nato all’interno del progetto di teatro sociale “Le Donne del Muro Alto” / Associazione “Per Ananke”]
Aprile 27, 2019